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Essere CODA: Mirella Bolondi

Intervista a Mirella Bolondi di Michele Peretti – 30/01/2019

Dentro di me sono una cosa sola. Sono io. Sono CODA.

Mirella Bolondi è nata a Milano nel 1967, città in cui vive. Si è laureata in Scienze dell’Educazione e lavora come Educatrice Professionale in un Centro di Aggregazione Giovanile con i preadolescenti, da moltissimi anni; lavoro che ama e che svolge con passione.
Con la casa editrice Zephyro ha pubblicato il suo primo romanzo Terra di silenzi che racconta in chiave fantastica l’incontro di un anziano signore, ritornato improvvisamente giovane, con gli abitanti di un paese dove tutti sono sordi e non conoscono il suono.
Con Fondazione Aquilone onlus ha pubblicato Nel paese Chenonsai una favola per adulti e bambini sul tema della disabilità, da cui sono nati diversi progetti nelle scuole, di diverso ordine e grado.
Da diversi anni conduce una trasmissione radiofonica, Voci d’Autore, su Radio Panda. Con cadenza mensile presenta le ultime novità editoriali con intervista in diretta all’autore.

1) Cosa significa per te essere CODA? 
Per moltissimo tempo sono stata “semplicemente” una figlia udente di genitori sordi e questa era la mia normalità, che condividevo con le persone a me più vicine. È lo sguardo degli altri a farti comprendere che c’è qualcosa fuori dall’ordinario nella tua vita. Così quando incontravo un nuovo compagno di giochi dichiaravo presto la particolarità della mia famiglia, pronta a rispondere al loro stupore e alle conseguenti domande: quando suona il campanello si accende una luce; per comunicare con loro basta guardarli in volto e scandire le parole; sì, uso anche i segni; no, non posso mettere la musica a tutto volume perché mia mamma si accorge delle vibrazioni e poi son guai. Insomma un breve interrogatorio, poi si cominciava a giocare: i bambini imparano in fretta e non hanno pregiudizi! Con gli adulti era un pochino più difficile. Alcune delle domande ricorrenti mi creavano sempre un certo turbamento, perché mi arrivava una morbosità che non comprendevo allora: Non ti dispiace che i tuoi genitori siano sordi? Non vorresti dei genitori normali? In realtà no, non mi dispiaceva affatto e non volevo dei genitori diversi. Il loro sguardo talvolta di disappunto mi faceva sentire una colpa che non comprendevo. Ma ciò che sentivo davvero era che gli altri genitori non mi piacevano altrettanto! Io avevo compreso l’Amore. Loro forse ragionavano con le sovrastrutture del pregiudizio. Ma la consapevolezza di essere CODA è arrivata solo con la maturità, quando ho cominciato ad allargare i confini della mia esperienza della sordità e a confrontarmi con i lettori del mio romanzo “Terra di silenzi”. Quindi oggi per me essere CODA significa aver vissuto una esperienza stra-ordinaria che mi ha insegnato ad ascoltare con gli occhi oltre che con le orecchie. È una consapevole appartenenza di un legame particolare con il mondo della sordità, che condivido con tante persone di diverse nazionalità, come me, figli udenti di genitori sordi.

2) Come hanno reagito i tuoi genitori quando hanno saputo di avere una figlia udente? 
Entrambi i miei genitori sono diventati sordi nella primissima infanzia come conseguenza di un incidente e una malattia. Quindi la sordità non era un fattore ereditario e hanno consapevolmente scelto di mettere al mondo due figli udenti. Credo che in fondo sia stata una forma di riscatto sociale e ho sempre percepito il loro profondo orgoglio. La nostra diversità quindi non è mai stata un problema ma anzi, qualcosa di bello e prezioso.

3) Come e quando sei stata esposta all’italiano? 
Questa domanda mi fa sempre sorridere. I miei genitori sono italiani e pur essendo molto anziani e di una generazione che non ha potuto usufruire di impianti e apparecchi acustici hanno sempre parlato. La loro voce particolare e forse non sempre comprensibile per qualcuno, lo era per noi figli. I segni che l’accompagnavano rendevano molto fluente la comunicazione tra noi. Soprattutto con mamma con cui sia io che mio fratello ci siamo sempre confidati. Io non ho avuto la fortuna di avere parenti o nonni vicini, quindi sono stati loro a insegnarci le prime parole, che leggevano sulle nostre labbra. Qualche volta chiedevano conferme a qualche vicino di casa o amico. Poi naturalmente c’è un mondo fuori con cui interagisci e che sostiene l’apprendimento linguistico.

4) A scuola ti sei mai sentita diversa dagli altri? 
Sinceramente no. I miei genitori erano ben integrati nella comunità di persone che frequentavo a quell’epoca. Forse più che la sordità era il loro animo artistico a colpire i miei amici e a fare la differenza. Entrambi infatti dipingevano e avevano straordinarie abilità manuali che suscitavano la loro ammirazione e li rendevano un po’ diversi dagli altri genitori. Ed io ne andavo molto orgogliosa, naturalmente.

5) Da un punto di vista linguistico e culturale ti senti più udente o sorda? 
Ecco, questa è una cosa di cui sono divenuta consapevole solo di recente. Io sono sorda e udente. Non mi interessa dare una percentuale, come se le due cose fossero contrapposte. Lo sono solo per gli altri. Dentro di me sono una cosa sola. Sono io. Sono CODA. Quando un giorno lo dissi a mia madre, la vidi sbiancare, come se fosse il segno di un fallimento. In fondo loro avevano fatto di tutto per aiutarmi a essere udente, rispettare e valorizzare la mia diversità. Mio papà mi cantava persino la ninna nanna, con il ritmo di un tamburo, fino a non pochi anni fa, quando ancora potevo sedermi sulle sue ginocchia. Un gesto d’amore che mi ha sempre riempito di tenerezza e mi manca tanto ora che non c’è più. E credo in realtà che questo sia il segno migliore del loro buon lavoro di genitori.

6) Cosa apprezzi delle due culture e cosa invece ti piace meno? 
Apprezzo la lingua dei segni, la bellezza di una comunicazione visiva e il senso di appartenenza, che ti fa incontrare amici, ovunque nel mondo come una grande famiglia. Non apprezzo le contrapposizioni interne tra oralisti e segnanti, tra chi porta un apparecchio acustico o un impianto cocleare. Tante energie perse, frutto di pregiudizi reciproci. Del mondo degli udenti mi vengono in mente solo due parole: musica e caos.

7) Hai incontrato delle difficoltà dovute al fatto di essere figlia di sordi? Se sì, quanto hanno influenzato il rapporto con i tuoi genitori? 
Nella mia infanzia, non c’erano cellulari, videochiamate, sottotitoli in tv, interpreti della Lingua dei Segni e tanti servizi e app, che ora sono disponibili e facilitano l’integrazione delle persone sorde. Noi figli eravamo spesso chiamati a fare da intermediari o ponte; a sostenere responsabilità maggiori dei nostri coetanei, fin dalla tenera età. Una cosa che spesso è data per scontata, ma che scontata non è.

8) Sulla base della tua esperienza quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano)? 
Credo sia molto di più che imparare due lingue. È avere a disposizione due modi diversi di esprimere vissuti e sentimenti, perché le due lingue viaggiano su due binari differenti, quello visivo e uditivo. E due modi diversi di ascoltare. È un segno più non meno.

9) C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi? 
Un giorno mio padre, riferendosi a non so più cosa disse: Sono sfortunato perché sono sordo! Ricordo che mia mamma si arrabbiò tantissimo e fece un lungo elenco delle cose per cui lui doveva sentirsi fortunato: aveva un lavoro che amava e gli regalava grandi soddisfazioni, (preparatore tecnico entomologo al museo della Scienza di Milano); la pittura, una bella famiglia, tanti amici e… due figli meravigliosi. (Essere inclusi nella lista era una cosa davvero bella per me bambina!) È stata l’unica volta in tutta la mia vita, che gliel’ho sentito dire. Con le loro azioni mi hanno insegnato una cosa molto preziosa che io traduco in: Ognuno cammina con le sue risorse! Così anche nei momenti più difficili della mia vita non dico mai sono sfortunata, ma cerco di fare una ricognizione delle mie risorse e vado avanti, o almeno ci provo. Non ci sono scuse alla felicità!

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