A proposito di CODA

Essere CODA: intervista a Francesca Fantauzzi

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Intervista a Francesca Fantauzzi di Michele Peretti – 08/11/2020
Coda (Children of deaf adults) è un acronimo internazionale nato negli Stati Uniti nel 1983 e scelto per indicare i figli udenti di genitori sordi.

Francesca Fantauzzi, figlia dell’artista sordo Carlo Fantauzzi, è interprete e performer LIS. Ha vestito i panni di Esmeralda nella versione segnata del musical Notre Dame de Paris. Recentemente l’abbiamo vista su RaiPlay interpretare alcune canzoni di Sanremo 2020 nonché di altri eventi accessibili.

1. Che cosa significa per te essere CODA?
Essere CODA per me significa sentirsi speciali. Guerrieri forti e fragili allo stesso tempo. Forti perché sin da bambini affrontiamo insieme ai nostri genitori le tante difficoltà imposte dalla vita. Fragili perché a volte l’ignoranza degli udenti ci ferisce. Sono i nostri sorrisi e i nostri valori a renderci dei guerrieri. Grazie alle nostre esperienze più o meno simili noi CODA siamo in qualche modo legati l’uno con l’altro, mano nella mano perché è grazie alle mani che troviamo unione.

2. Quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e italiano) ?
Io nasco da una famiglia così composta: padre sordo, madre udente e fratello udente. La LIS è comunque la mia lingua sin dalla nascita. A volte mi tornano in mente le espressioni facciali di mio papà rivolte a una piccolissima me e poi le favole che mio papà inventava per farmi addormentare rigorosamente segnate. Le ricordo alla perfezione, in ogni dettaglio e potrei segnarvele anche qui, ora! Ricordo che poi però volevo anche ascoltare qualcosa quindi cercavo la mia mamma che era per così dire l’addetta alle canzoni cantate con la voce.

3. Com’è stato respirare arte sin dalla più tenera età?
Sono figlia di un artista. Mio padre è un “maestro del colore” (i critici d’arte lo appellano così), per me è il mio papà pittore! Sono “nata in viaggio”, nel senso che con la mia famiglia eravamo sempre in giro per l’Italia e per il mondo ad allestire mostre e a divulgare l’arte di papà. Durante i lunghi tragitti, mentre mamma in macchina cantava, io segnavo le canzoni per poi farle vedere a papà una volta scesi dall’auto. È un ricordo ancora vivissimo! Papà invece è sempre stato un tipo fuori dal comune e in macchina inventava canzoni segnate e cantate a modo suo con la sua voce. Era ed è tutt’ora così divertente! L’arte e la follia scorrono nelle mie vene e io sono felice di essere nata nella mia famiglia. Forse per questo sono diventata una performer LIS.

4. A scuola o in altri contesti ti sei mai sentita diversa?
Io non mi sono mai sentita diversa in modo negativo. Anzi, mi sono sentita “diversa” perché speciale! A dire il vero da piccolissima a scuola già segnavo con gli altri compagni e rimasi delusa nello scoprire che quella lingua magica la conoscevo soltanto io.

5. Cosa apprezzi della cultura sorda e cosa invece ti piace meno?
Della cultura sorda apprezzo il forte senso di identità, per questo stesso motivo mi piace meno. Mi spiego meglio: molti sordi a volte sono talmente presi dalla voglia di vedersi riconosciuta la loro identità che dimenticano di avere figli o parenti udenti. Di alcuni, quindi, non tollero il vittimismo e il senso di colpa che vogliono far provare agli udenti che hanno accanto.

6. Diventare interprete LIS: scelta o senso del dovere?
Diventare interprete LIS per me è stata una scelta. Il senso del dovere è un’altra cosa. La LIS è anche la mia lingua, la uso quotidianamente, ma quando vesto i panni dell’interprete mi trovo a ricoprire un ruolo preciso e a esercitare una professione!

7. Come sei diventata Performer?
Nel 2008 ho intrapreso il mio percorso di studi riguardante la LIS ma sentivo che il canale comunicativo a me più consono era la musica. E come potevo far vedere quella bambina che segnava le canzoni in macchina o sui palchi della Sicilia ai tempi dei “Giochi senza barriere”? Ho scelto quindi di frequentare l’Accademia Europea Sordi (AES) di Laura Santarelli a Roma presso l’Istituto storico di via Nomentana perché era l’unica scuola con un indirizzo più artistico.

8. Qual è tra le canzoni che hai interpretato quella cui sei più legata?
Senza dubbio “Come un pittore” interpretata per e con papà.

9. C’è un episodio particolarmente significativo che vorresti condividere con noi?
Sicilia, “Giochi senza barriere”, avrò avuto sei o sette anni. Mio padre e degli amici si avviano al bancone del bar. Papà chiede un caffe (senza accento perché non riesce a dirlo), il cameriere fa cenno di sì con il capo poi si volta e inizia a prendere in giro mio padre ridendo e pronunciando caffe, caffe, caffe. Beh, io mi arrampico letteralmente sul bancone e gli grido a brutto muso: “ma come ti permetti di prendere in giro il mio papà se non riesce a dire caffè? L’importante è che tu lo abbia capito, no?”. Il barista rimase di ghiaccio. Ricordo ancora la risata di papà con gli occhi luminosi dritti dritti nei miei, i suoi denti larghi e io fiera di essere la sua voce.

10. Qual è il tuo motto?
L’arte salverà il mondo.

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