A proposito di CODA

Orgogliosamente CODA: Anna Maria Peruzzi si racconta

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Intervista a Anna Maria Peruzzi di Michele Peretti – 04/03/2020

Coda (Children of deaf adults) è un acronimo internazionale nato negli Stati Uniti nel 1983 e scelto per indicare i figli udenti di genitori sordi.

Anna Maria Peruzzi ha ottenuto il riconoscimento come interprete LIS dalla Regione Lazio nel 1983, quando ancora la Lingua dei Segni veniva considerata Linguaggio mimico gestuale, ottenendo così il primo attestato in Italia da una pubblica amministrazione. Dal 1962 al 1978 ha lavorato come segretaria di redazione per il giornale “La Settimana del Sordomuto” e segretaria del Presidente Nazionale dell’ENS, Dott. Vittorio Ieralla. Nel 1980, anno di inizio della ricerca sulla Lingua dei Segni in Italia, ha iniziato la collaborazione presso l’allora Istituto di Psicologia del Linguaggio e oggi Istituto delle Scienze e Tecnologie della Comunicazione del CNR, diretto dalla Dott.ssa Virginia Volterra. Interprete ufficiale del III° Simposio internazionale sulle lingue dei segni, tenutosi a Roma nel 1983, tappa fondamentale per la ricerca della Lingua dei Segni Italiana. Interprete personale di Oliver Sacks in occasione della sua visita in Italia. Consulente e interprete LIS per il film “Dove siete? Io sono qui” di Liliana Cavani. Nel 1993 diviene assistente e interprete personale dell’On. Bottini, primo sordo deputato eletto in parlamento. Per anni membro della Commissione esaminatrice ANIOS, di cui è stata anche vicepresidente nazionale e presidente regionale, più volte eletta nel Collegio dei Probiviri, carica che ricopre tuttora. Unica udente eletta presidente dell’Associazione Gruppo SILIS. Docente di corsi LIS e interpretariato, coordinatrice per i corsi di assistente alla comunicazione presso il gruppo Silis e la Sezione Provinciale ENS di Roma.

1) Cosa significa per te essere CODA?
La reputo una fortuna e sono orgogliosa dei miei genitori sordi che, con amore ma anche sacrifici, hanno saputo dare a me e ai miei fratelli una vita dignitosa. Sono cresciuta con dei sani principi che ho potuto trasmettere ai miei figli e spero anche ai miei nipoti. Sono nata subito dopo la guerra, in un’epoca in cui le persone sorde erano viste con diffidenza o compassione, nel migliore dei casi. Una curiosità particolare, direi quasi morbosa, si poteva leggere sui volti delle persone udenti quando incontravano due sordi intenti a comunicare tra loro. Essere CODA è per me una ricchezza intellettiva che nel tempo mi ha reso orgogliosamente bilingue.

2) Come e quando sei stata esposta all’italiano?
Direi da subito. In casa con noi viveva mia nonna paterna udente e che ogni giorno mi raccontava le storie della sua vita. Così convivevo serenamente con le due lingue e il confronto tra queste non era mai una scelta forzata. Quando frequentavo la scuola dell’infanzia, non trovavo nessuna difficoltà a relazionarmi con i miei compagnetti udenti. Anzi per me era assai divertente e naturale padroneggiare due realtà comunicative.

3) A scuola o in altri contesti ti sei mai sentita diversa dagli altri?
Diversa sì, ma in senso positivo. Provavo certo un po’ di imbarazzo durante il colloquio con i professori, quando dovevo tradurre per i miei genitori che pur essendo un’alunna diligente, dovevo studiare di più. In quel caso però suscitavo ammirazione nei professori, meravigliati per la mia facilità nel comunicare con una modalità a loro sconosciuta. Quando studiavo in casa con i compagni di scuola, mi divertivo a leggere lo stupore di chi non comprendeva il motivo di un campanello luminoso. Allora mi facevo grande, spiegando a tutti quella mia differenza così straordinaria. Mi sentivo speciale anche quando passando in gelateria, prendevo un gelato dicendo che avrebbe poi pagato mamma e la lattaia scriveva diligentemente su di un libro la muta deve lire… e io pronta ribattevo che doveva scrivere solamente il mio cognome. Quando i clienti di mio padre, nel suo negozio di sartoria, chiedevano se io sentissi o fossi sordomuta, lui con orgoglio mi parlava in italiano chiedendomi di riprodurre in mimica la parola che io prontamente eseguivo. Tutto questo mi faceva sentire speciale.

4) Da un punto di vista linguistico e culturale ti senti più udente o sorda?
Sicuramente udente. Mi piace ricordare quando nelle riunioni di lavoro la dottoressa Elena Pizzuto, nota ricercatrice del CNR, era solita ripetere sorridendo ad alcuni miei interventi, che avevo atteggiamenti più da sorda che da udente. La cosa curiosa è che nelle riunioni con persone sorde, le stesse mi dicevano: “sei pur sempre un’udente”. Tutto questo mi fa sorridere.

5) Cosa apprezzi della cultura sorda e cosa invece ti piace meno?
Della cultura sorda apprezzo la testardaggine, la grande forza di volontà che li ha portati a raggiungere una certa emancipazione e qualità di vita. Oggi hanno finalmente gli strumenti con i quali rivendicare la loro identità di persone sorde. Molto lo devono tuttavia a uomini come papà Magarotto, Ieralla, Rubino, De Carlis, Menossi, Brocchi, Carli, Sebasti, Comitti, Verdirosi e tanti altri umili e sconosciuti gregari che hanno affrontato dure lotte in un periodo storico dove le parole solidarietà, istruzione, lavoro e vita sociale erano per i sordi pressoché sconosciute. L’aspetto che invece ho sempre amato meno è un’innata diffidenza dovuta alla paura di essere fraintesi o peggio raggirati e strumentalizzati.

6) Hai incontrato delle difficoltà dovute al fatto di essere figlia di sordi?
No. Credo di poter affermare di aver solo anticipato la fase pinocchiesca che ognuno di noi vive: essere genitori dei nostri genitori. Così facendo ho acquisito una maturità tale da superare quegli ostacoli che la vita inevitabilmente ci riserva.

7) Sulla base della tua esperienza quali sono i benefici di crescere in un contesto bilingue bimodale (LIS e Italiano)?
Sono cresciuta con un’attenzione particolare verso la diversità. Sin da piccola le due lingue mi appartenevano simultaneamente. Spesso mi è capitato di ricordare una parola attraverso il segno corrispondente. La mia memoria visiva ne usciva quindi rafforzata. Segnare mi ha poi dato modo di poter cogliere quei dettagli impercettibili ma comunque importanti di uno sguardo. Così ho potuto conoscere gli aspetti meno evidenti che le persone mostrano naturalmente, raffinando la mia percezione visiva.

8) C’è un episodio legato al tuo vissuto che vorresti condividere con noi?
Non uno, molti! Ad esempio la domenica mattina mio padre era solito lasciare aperto il negozio di sartoria che si riempiva di persone sorde. Quasi fosse una succursale del dopolavoro. Lì erano soliti affrontare ogni argomento, dalla politica al calcio, tutti con una stessa lingua. Avevano bisogno di confrontarsi sulla settimana trascorsa, scambiarsi informazioni, crescere insieme. Un altro episodio cui sono particolarmente legata è quando i miei genitori mi regalarono una radio. Volevano rendermi partecipe degli eventi esterni e farmi ascoltare la musica, un mondo a loro sconosciuto.

9) Diventare interprete LIS: vocazione o senso del dovere?
Più che vocazione direi senso del dovere, almeno agli inizi. Una sorta di protezione verso i miei genitori. Crescendo e acquisendo conoscenze, ho sperimentato giorno dopo giorno una professione in divenire. La stessa che ho scelto e di cui sono stata e sarò sempre orgogliosa.

10) Qual è il tuo motto?
“Se vuoi capire una persona, non ascoltare le sue parole, osserva il suo comportamento”. (A. Einstein)

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